IN MEMORIA DI GABRIEL CELAYA

seb sagldi Sebastiano Saglimbeni

Ѐ proprio vero che le guerre generano nuovi linguaggi e nuove poetiche. Lo scriveva, non senza amarezza, Elio Vittorini.  Quella devastante – come tutte –  guerra civile in terra di Spagna, conclusasi con l’ascesa   al potere di un dittatore freddo e spietato, venne intesa da  un’ infinità di scritture di vario genere. Tra queste, quella poetica di Gabriel Celaya. Che pure scrittore e saggista basco venne divulgato in Italia dall’editore  Mondadori, che pubblicò nel 1967  un consistente corpus  poetico, coronato dal premio Etna -Taormina.

  Successivamente, nel 1981, è stata divulgata  a Verona dalle nascenti Edizioni del Paniere una scelta di nuovi testi poetici dal titolo Le carte in tavola, tradotti ed introdotti da  Pier Luigi Crovetto, docente di Letteratura ispano americana all’Università di  Genova. Tra i titoli delle edizioni veronesi già figuravano testi di Iannis Ritsos, poeta neogreco di spicco, coetaneo di Celaya. Ritsos era nato nel 1909, Celaya nel 1911. Entrambi, a parte la loro efficace tensione lirica, poeti di grande e solido impegno civile, ideologicamente marxisti.

   Celaya, secondo Crovetto e secondo il pensiero critico, fiorito all’indomani della scomparsa, nel 1991, resta una delle voci più alte della poesia spagnola, accostabile a quella di Federico García Lorca della classe 1898 e a quella di  Rafael Alberti della classe 1902. Celaya, pertanto, costituisce tuttora un obbligato punto di riferimento per le giovani generazioni poetiche, un modello di rigore morale, di totale dedizione alla causa della democrazia, di rifiuto costante alle lusinghe e alle tentazioni di cedimento.

Delineata questa premessa, di seguito, per i nostri lettori, ricordiamo alcuni testi poetici nei quali si legge  il grido  di indignazione di Celaya che  osserva il suo vasto Paese terribile  e santamente arcaico.  Era la primavera del 1937, quando egli arrivò a Guernica.

 Nel campionario dei suoi seguenti versi: lui, uomo, poeta che visse quella guerra spietata, iniziata nel 1936 e  terminata  nel 1939 con il bieco trionfo della dittatura. Numerosissimi i morti,  più di 500.000. Tra questi, in Spagna, gli Italiani, una parte di venduti ed assoggettati  al potere fascista, un’altra parte di dignitosi e liberi, osteggianti le dittature.

  Vennero uccisi in quella guerra civile molti intellettuali di Spagna, come Federico García Lorca. Molti finirono in esilio e chi sopravvisse  poté ritornare, dopo la morte del dittatore Francisco Franco, in Spagna.                       

 

Da Canti iberici

Spagna peregrina

 Questa forza profonda,/ viva, intricata,/ questa viscera straziata che chiamiamo Spagna/ è dentro di me, non la penso, / non posso pensarla secondo la teoria con cui vogliono castrarla/ quanti in nome d’un passato dicono: gloria,  punto e basta.

 Questa forza reale che chiamiamo Spagna,/ rabbiosa, sufficiente,/non è gotica-gagliega-leonese-romana,/ né araba, greca, austro-castigliana./ Ѐ iberica, terribile, santamente arcaica,/ mia materia e mia   magia.

 Non posso pensarla./  Né dire se buona o cattiva/  è la Spagna, / se è triste o violenta,  se bella o se uccide./ Non posso giudicarla./ Vivo in lei, lei in me trascendendo, / e così m’abisso / al suo fondo, fieramente esistendo(….).

 Fiera amante, madre  amara /  maledicendoti mi sfibro, ti vìolo, canto chiaro, /  e questa rabbia che ti grido/ è la rabbia con cui cerco di esprimere il mio intimo, / è il mio modo di amarti/ ed è il mio modo di parlarmi senza perdonare me stesso.

Spagna cieca, Spagna mia,/ arsa, bella, esasperante,/ vasta Spagna che cavalco, senza trovarne il confine, / Spagna che mi palpiti dentro/ e tanto più t’affermi, quanto più io ti combatto,/ e sei me senza esser mia, inconsapevole, di carne.(…).

 

Da Poesie proibite

 L’albero di Guernica

 Era la primavera dell’anno trentasette/ quando arrivai a Guernica. / Si fabbricavano boccagli di maschere/ antigas. Io dovevo/ – servizio di ispezione – vedere che diavolo accadeva / e quel che non andava./ Lì, a Guernica, v’erano le giovani forze/ guipuzcoane, e io dovevo/ – servizio di istruzione – preparare / una possibile difesa in caso di attacco chimico./ Tutto mi sembrava remoto. Facevo/  il mio dovere, ma impossibile/ era pensare a un tale attacco./ Il fronte era lontano.  Splendeva indenne il cielo./ E poi, bisogna dirlo:/ da molto tempo non mangiavo agnello,/ né pane bianco, come lì, in retroguardia./ Così facile sembrava la pace! Non si avvertiva/ né  ira  né menzogna./ A volte visitavo il nostro albero di Guernica,/ e guardavo il sereno, / sereno che durò tutti quei giorni,/ un azzurro vasto, tranquillo che nulla/ sembrava poter turbare, marzo amato(….).

La sconfitta

 Le  battaglie di giugno, al limite del bosco/ bagnato e trasudante, saturo / di profumo silvestre e primavera./ Crepitando risuonavano, con accento/ italiano – che pure  si capiva -, / le mitraglie nemiche./  Non esisteva il mondo ed era facile/ piegare un uomo soltanto con un dito./  Pedrito mi raggiunse. Era braccato./ Con dignità mi chiese: – Ci  arrendiamo?  – Questo mai,/  no,   mai -, a tutta voce urlai,/ senza pensare da che inferno ne veniva./ Passavano – burrumbum –  i bombardieri./ Erano accasciati, miserabili,/ biascicando trite imprecazioni,/ quando Pedrito disse: – “No; / questo mai”, / cresciuto nell’orrore,  alto in faccia al rischio./ Nubi felici, di passaggio,/ volavano in cielo, che nulla,/ neppure i bombardieri, sembrava attraversare./ Pedrito  guardò in alto. E quindi mi guardò. / E si guardò intorno. Sei uomini soltanto/  restavano dei suoi, ed era duro/ sentirsi,  nonostante tutto, libero e vivo./ Il bosco era un corpo sussultante;/ una memoria, il fiume; e molti morti/ saldavano il silenzio nel palpito / della sconfitta, di quelle nubi alte,/ di  tutto ciò che accade senza senso./ Il bosco, solo il bosco. I suoi aromi./ Le mitraglie. E noi/ appiattati nel cuore, all’origine/ del bosco palpitante, oppur volando/ con le perdute nubi, in lontananza./ Risuonavano aspre, come un Morse/ le mitraglie che uccidevano senza scampo./ I miei amici cadevano, uno ad uno./ E io inebetito, quasi in sospeso,/ dimoravo nel superstite chiarore./  Perché è certo:  non eravamo vinti./ E per questo io seguito a lottare/ con tutti i nostri morti, vivo. Vivo?